INSODDISFAZIONE VERSO SE STESSI

Perchè ci impegniamo tanto ma continuiamo a provare insoddisfazione verso noi stessi? Perchè non riusciamo ad essere contenti dei nostri risultati e tendiamo a svalutarli?

Molto spesso succede quando ci siamo costruiti una serie di aspettative, quando pensiamo che per essere apprezzati e accettati dagli altri dobbiamo raggiungere determinati “standard”. Raggiungere questi “standard” diventa un dovere da cui facciamo fatica a prendere le distanze, nonostante ci faccia sentire di dipendere costantemente dal giudizio e dal confronto con gli altri.

Tutto ciò che raggiungiamo, che realizziamo, che conquistiamo, lo passiamo al setaccio, leggendolo attraverso quello che pensiamo sia lo sguardo degli altri su di noi e attraverso lo sguardo che noi abbiamo sugli altri. La paura è di fallire, di deludere, di non essere all’altezza, ed è così che ci sentiamo. Gli altri sono sempre migliori, più avanti, più capaci e ci giudicano dall’alto.

Facciamo fatica a riconoscerci i nostri meriti da un lato perchè non siamo capaci di vederli, dall’altro perchè darci valore implicherebbe il rischio di vederlo messo in discussione o di non riuscire a mantenere quella aspettativa “raggiunta”. Quando ci proviamo, ci sentiamo degli “impostori”: “cosa avremo fatto di tanto speciale? sicuramente c’è qualcuno che lo sa fare meglio…”

È difficile lasciar andare quelle aspettative, perchè in qualche modo sono diventate parte della nostra identità. Ma forse quelle aspettative possiamo farle più nostre e meno degli altri, e possiamo far sì che rispondano a domande diverse. Invece di chiederci: “sono stato abbastanza capace? Ho fatto le cose come andrebbero fatte? Gli altri sono contenti di me?potremmo provare a chiederci: “sono stato abbastanza felice? Questa esperienza è stata abbastanza utile per me? Mi sono ascoltato abbastanza?”

Se l’insoddisfazione verso te stesso è qualcosa che conosci bene e vorresti provare a cambiare le domande che ti fai, contattami.

MI SENTO DI PESO PER GLI ALTRI

A volte capita di sentirci in difficoltà e di sentire il bisogno di chiedere aiuto, o di desiderare qualcosa e di volerlo chiedere per sé, ma ci ferma la paura di essere di peso.

Sentirsi di peso significa aver paura di preoccupare, appesantire, rattristare, caricare di una responsabilità l’altro. Ciò che ci aspettiamo è che, se mettiamo nella relazione con l’altro il nostro bisogno, l’altro si sentirà costretto a farsi carico di noi, volente o nolente, rinunciando a se stesso. Per questo spesso preferiamo rinunciare a noi e cerchiamo di essere come pensiamo che l’altro ci voglia.

Ci sentiamo più a posto con noi stessi se ce la caviamo da soli e mettiamo davanti gli altri, mentre abbiamo il timore di risultare egoisti e cattivi se mettiamo prima noi stessi. Questo però può portarci ad accumulare rabbia e frustrazione, perché non sentiamo mai spazio per noi e per ciò che desideriamo.

Ma perché non possiamo considerare che l’altro potrebbe non vedere il nostro bisogno come un peso? O che, anche se per lui fosse una preoccupazione, potrebbe aver voglia di essere lì con noi, a darci una mano? O che, se l’altro decidesse di non accogliere il nostro bisogno, anche noi potremmo valutare quanto quella relazione ha valore per noi?

In una relazione non siamo da soli e potrebbe valere la pena di trovare un modo in cui poterci essere entrambi, ognuno a proprio modo. Permettiamo all’altro di esserci, ma permettiamolo anche a noi stessi.

Se hai voglia di parlarne con qualcuno, contattami.

LA RABBIA

La rabbia è un’emozione di cui spesso ci vergogniamo, perchè mostra la nostra aggressività e ostilità. A volte ci spaventa, perchè sentiamo che spaventa anche gli altri.

Ma cosa esprime quella rabbia? La rabbia spesso è la voce di una sofferenza che non può essere espressa.

Può essere che per lungo tempo o in determinate occasioni ci siamo sentiti non accolti, non compresi, non rispettati, lasciati soli, e che questo ci abbia fatto sentire fragili e vulnerabili. Ma sentirsi fragili significa spesso sentirsi esposti, significa avere paura che ancora una volta verremo delusi e feriti. Allora, invece che chiedere di essere ascoltati nelle nostre paure, esprimiamo la nostra sofferenza attraverso la rabbia.

La rabbia può essere rivolta agli altri, visti come colpevoli del nostro dolore, o può essere rivolta a noi stessi, visti come non meritevoli di considerazione e amore.

La rabbia ci permette di mantenere una distanza dagli altri, di proteggere ciò che per noi è estremamente delicato. Ma in quella distanza spesso ci sentiamo soli e continuiamo a non trovare risposta al bisogno di sentirci compresi e sostenuti.

E se provassimo noi per primi a prenderci cura di quei bisogni? Se ci permettessimo di dare voce a quella sofferenza invece di continuare a difenderci?

La terapia è uno spazio in cui è possibile portare quella rabbia e, con i propri tempi e modi, lasciar parlare anche il dolore che nasconde. Uno spazio in cui si può iniziare a dare ascolto a quei bisogni e a prendersene cura, insieme.

Se vuoi fare questo percorso con me, contattami

COME CI PROTEGGIAMO

Ci sono delle parti di noi che reputiamo vitali. Non parliamo solo di parti fisiche – come il cuore, o i polmoni – ma anche di aspetti relativi a come vediamo noi stessi.

Sono aspetti che ci caratterizzano, che potremmo dire che definiscono chi siamo. Quando ci muoviamo nel mondo, giorno dopo giorno, lo facciamo basandoci su quell’idea di noi, su come noi ci conosciamo.

Essendo queste parti così importanti, diventiamo anche bravi a tenercele strette – a difendere quegli aspetti per cui Io sono Io. Abbiamo tante strategie per farlo, ne abbiamo inventate di ogni genere, più o meno consapevoli.

Una di queste è spingere verso il basso, schiacciare sotto il tappeto, chiudere nel cassetto – spazzare via, lontano dai nostri pensieri – tutte quelle emozioni, quei pensieri, quegli avvenimenti che ci dicono qualcosa di diverso su di noi, qualcosa che non è coerente con l’idea che abbiamo.

Perché? Perché a volte scoprire qualcosa di nuovo fa paura, perché ancora non ne conosciamo le implicazioni.

Se mi sono sempre vissuta come una persona forte – che non chiede aiuto a nessuno, che non crolla mai dalla tristezza o dalla paura, che riesce a tenere tutto a bada – quando, per una qualche ragione, la vita mi mette di fronte a qualcosa che mi fa sentire debole e mi fa sentire di non potercela fare da sola, ecco che arrivano i pensieri: “Chi sono io allora? Come posso fare qualcosa che non ho mai fatto e che non so fare, qualcosa come chiedere aiuto? Come mi vedranno gli altri, cosa penseranno di me? Posso accettare di avere delle debolezze? Come posso gestire le emozioni se prima mi sembravano controllabili e ora non più?”.

Non sempre siamo disposti a rispondere a queste domande, perché ci spaventano le possibili risposte o perché ci spaventa il fatto che non abbiamo idea di quali siano – e allora scegliamo di prendere tutte queste domande e spazzarle via, cercando di andare avanti come abbiamo sempre fatto.

Questo però ha un costo, perché ne soffriamo.
E allora, a volte, vale la pena di prendere in mano quelle domande – nonostante la fatica – e provare a esplorare le infinite possibilità che abitiamo.

ASCOLTO E PSICOTERAPIA

Spesso, quando proviamo a esprimere un sentimento come “sono triste”, “sono in ansia”, “sono arrabbiato”, ci sentiamo rispondere frasi come “vedrai che passa”, “ma dai, di cosa ti preoccupi”, “non saranno questi i problemi, c’è chi sta peggio”, “ah beh, perché non sai io…”, “te la prendi per niente”.

Di fronte a queste risposte ci sentiamo sempre insoddisfatti e frustrati. A volte non sappiamo perché e ci chiediamo cosa vorremmo dagli altri, se nessuna risposta sembra essere quella giusta. Allora ci diciamo che forse stiamo sbagliando a chiedere aiuto – o ci diciamo che forse siamo sbagliati noi – e prendiamo la decisione di tenere tutto dentro, oppure continuiamo a chiedere aiuto urlando sempre più forte.

Ma qual è la risposta di cui abbiamo bisogno davvero? L’ascolto. Poter sentire che c’è qualcuno – lì per noi – che ci dà spazio e che ascolta quello che proviamo. Qualcuno che ci dica che ciò che sentiamo ha un senso – che è comprensibile che possa essere difficile, brutto, doloroso, terribile o qualsiasi cosa noi sentiamo che sia.

Qualcuno che non cerchi di aggiustare ciò che si è rotto ancora prima di avere capito cosa si è rotto, perché e come –  qualcuno che non sia lì per sostituire i pezzi rotti, fragili o graffiati con qualcosa che per lui è più adeguato, presentabile e accettabile, senza nemmeno sapere cosa è buono e preferibile per noi.

Uno dei luoghi possibili in cui trovare ascolto è la psicoterapia – una relazione all’interno del quale è possibile darsi spazio e trovare spazio, senza sentirsi sbagliati e senza dover urlare, per cercare nuovi modi di ascoltarsi, di ascoltare e di chiedere di essere ascoltati.

LA RABBIA NEI BAMBINI

La rabbia è un’emozione ed è un’emozione che esprime vitalità. Spesso però nasconde altro: dolore, angoscia, paura dell’abbandono, impotenza, senso di colpa, sentirsi annullati perché non capiti né ascoltati. La rabbia è il tentativo di creare un ponte verso gli altri, è un modo per comunicare qualcosa che è dentro di noi e che non sappiamo come esprimere altrimenti; è l’accumularsi di emozioni negative inespresse che a un certo punto hanno bisogno di venire fuori, e non conoscendo un modo costruttivo di farlo, lo fanno attraverso la rabbia, che può essere distruttiva verso sé e verso gli altri.

Sebbene la reazione più immediata alla rabbia sia quella di prenderne le distanze, è invece importante ascoltarla, per capire cosa c’è sotto, da cosa nasce, e trovarle uno sbocco evolutivo. Cercare di ignorarla, tenerla a freno, nasconderla, implica un grande sforzo e un grande impiego di energia, che potrebbe essere invece investita nello sviluppo di risorse.

Come interagire con la rabbia?

  • Riconoscere le emozioni che si celano dietro la manifestazione di rabbia e rispettarle, non negarle, nasconderle o vergognarsene, ma dargli una loro dignità. Se quelle emozioni esistono, hanno una loro ragione per farlo.
  • Contenere e tollerare mentalmente la rabbia, sia la nostra sia quella altrui, aiutando gli altri a farlo a loro volta. Accettare che la rabbia è un’emozione, che fa parte della vita e che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, aiuta a osservarne e sopportarne la presenza.
  • Invece di scappare o di reagire con altra rabbia, bisogna provare ad ascoltare la rabbia e accettare di confrontarsi anche con il dolore, la paura, la solitudine e le altre emozioni che nasconde.

Cosa può generare rabbia nei bambini?

  • La paura di essere abbandonati

Le paure hanno una funzione autoprotettiva: sono emozioni primarie, che permettono di attivare reazioni di difesa nei confronti di potenziali pericoli. Le paure possono essere connesse all’età evolutiva o alla storia individuale.

La paura di essere abbandonati, in particolare, è tanto maggiore quanto più piccolo è il bambino. Quanto più siamo piccoli, tanto maggiore sarà la dipendenza dal genitore, in quanto fondamentale per la nostra sopravvivenza.

Se, nei periodi in cui la vicinanza a chi si prende cura di noi è più importante, accade qualcosa che mette a rischio il legame di dipendenza (come la nascita di un fratellino o la morte/malattia di una persona vicina), il bambino potrà temere di essere abbandonato, e dunque di morire.

Nel bambino queste paure, difficili da verbalizzare ed esprimere, possono manifestarsi attraverso dei sintomi comportamentali, come la rabbia e la fobia, che permettono di trasferire l’ansia su oggetti più gestibili. Il vissuto di essere abbandonati non nasce solo da un’assenza fisica della persona di riferimento, ma anche da una sua eventuale assenza mentale (dovuta ad altri problemi, come la depressione o eventi che catturano tutta l’attenzione).

È dunque fondamentale riconoscere le paure del bambino, aiutarlo ad esprimerle, senza svalutarlo o minimizzarle. Bisogna accogliere queste paure e mostrare così al bambino che possono essere gestite e superate. È importante lasciare che il bambino le superi con i suoi tempi e modalità, senza forzarlo.

  • L’iperprotezione svalutativa

Molto spesso i modelli relazionali che mettiamo in campo con i nostri figli derivano dai modelli relazionali che a nostra volta abbiamo sperimentato con i nostri genitori, per uguaglianza o per differenza. Possiamo cioè riproporre lo stesso modello, perché è l’unico che conosciamo, oppure cercare di fare l’opposto, nella speranza di impedire ai nostri figli di subire le nostre stesse ferite.

La svalutazione è un meccanismo che spesso è presente nelle relazioni, in forma verbale (“non sei capace!”) o non verbale (rifare una cosa appena fatta da un’altra persona, alzare gli occhi al cielo), e che incide fortemente sull’autostima della persona svalutata e ne mette in crisi le risorse.

Uno dei modi per svalutare un bambino, di solito inconsapevolmente, è l’iperprotezione. Un genitore, spesso guidato dal desiderio di aiutare il proprio figlio e di evitargli la sofferenza di non riuscire a fare qualcosa e sentirsi incapace (esperienza generalmente riconducibile all’infanzia del genitore stesso), può iniziare a fare le cose al posto suo. Tuttavia, questo comportamento porta il bambino a sviluppare un’immagine di sé come incapace di fare le cose autonomamente o comunque a pensare di non essere abbastanza bravo nel farle e a nutrire una paura rispetto all’assumersi delle responsabilità, in quanto abituato ad essere sostituito dal genitore. Il sostituirsi completamente al bambino impedisce a quest’ultimo di confrontarsi con le frustrazioni e di apprendere le strategie per superare i momenti difficili. Il bambino fa fatica a crearsi un’identità e un bagaglio di risorse e sicurezze, perché tutto ciò che fa e pensa è determinato dal genitore. Inoltre, il non essere considerato capace, in grado di fare da sé e di autodeterminarsi, può generare nel bambino frustrazione, impotenza e rassegnazione, che possono esprimersi attraverso la rabbia.

È dunque importante lasciare che il bambino sperimenti a modo suo il mondo, garantendo comunque la propria presenza di genitore e il proprio aiuto nei momenti di difficoltà. Il bambino deve avere la possibilità di commettere errori e di avere fiducia nel fatto che continuando a provarci, alla fine imparerà, nel rispetto delle sue risorse ma anche dei suoi limiti.

  • Gli interventi ironici distruttivi

L’ironia può essere uno strumento utile per sdrammatizzare alcune situazioni, ma è importante prestare attenzione a come la si usa. Ciò che fa la differenza è usarla su di sé o sugli altri e soprattutto prestare attenzione alla reazione di chi si ha davanti.

A volte un bambino può fare al genitore delle richieste che per lui sono importanti ma a cui il genitore si rifiuta di acconsentire, per una ragione o per l’altra. Di fronte alla sofferenza del bambino, al genitore può capitare di pensare che usare l’ironia, prendendo in giro le sue richieste e facendolo ridere, possa alleggerire la situazione. In realtà questo per il bambino significa veder prendere in giro una cosa per lui importante; si sentirà dunque mortificato e offeso, e questa mortificazione, accumulandosi nel tempo, potrà trasformarsi in rabbia. Una rabbia inascoltata potrà a sua volta far sentire al bambino che non vale nulla, che ciò che sente, pensa e desidera non ha valore. Il dolore devastante di questa condizione diventerà intollerabile al punto che il bambino, per proteggersene, potrà decidere di chiudere in un cassetto tutte le emozioni e di usare solo la testa, diventando come un guscio vuoto. L’unico modo per sentirsi di nuovo vivo sarà riprendere il contatto con tutte quelle emozioni messe a tacere per non soffrire.

Quando si usa l’ironia, è importante prestare attenzione al feedback del bambino. Un bambino ferito, frustrato, triste, deve far riflettere sul proprio modo di comunicare con lui.

  • Estrema vicinanza o estrema lontananza

Nel primo anno di vita il bambino ha un forte bisogno di stare attaccato alla madre, da cui dipende per la sopravvivenza, mentre verso il primo anno di età il bambino inizia a camminare e ad esplorare l’ambiente, staccandosi dalla madre. Tuttavia, nel periodo tra il primo e il secondo anno di vita, tendenzialmente verso i 15 mesi, il bambino, che nel frattempo ha già cominciato a esplorare l’ambiente e ha sviluppato una certa consapevolezza dell’essere molto piccolo in un mondo molto grande, torna ogni tanto a cercare improvvisamente la madre per ritrovare sicurezza e spingersi ad esplorare più lontano.

Il modo in cui la mamma reagisce a questo bisogno è fondamentale, in quanto dovrebbe evitare i due estremi: l’eccessiva vicinanza e l’eccessiva lontananza. Da una parte, tenere il bambino costantemente attaccato a sè gli impedisce il distacco e la scoperta dell’ambiente, fondamentali per costruire un senso di sé, della propria identità e delle proprie risorse; dall’altra, impedire al bambino di avvicinarsi, costringendolo all’autonomia quando ancora non è pronto porta il bambino a doversi adattare e arrangiare con le proprie forze, non rispettando quelli che sono i suoi tempi. Entrambi gli atteggiamenti possono portare il bambino a sperimentare la rabbia, in quanto può non sentire riconosciuti i propri tempi e bisogni e può sentirsi impaurito e inadeguato, nel caso in cui non abbia potuto affrontare il mondo esterno, o manchevole di qualcosa, nel caso in cui non abbia potuto godere della sicurezza materna quando ne aveva bisogno.

È dunque fondamentale saper ascoltare il bambino e comprendere e assecondare i suoi tempi di crescita, cercando di trovare il miglior equilibrio tra i bisogni del bambino e quelli della mamma. Questo non accade solo nei primi anni di vita, ma si ripresenta costantemente nel corso della crescita e in particolare durante l’adolescenza.

  • Le critiche svalutative

Il processo di apprendimento è un percorso che avviene per prove ed errori e in cui nessuno è immune dallo sbagliare. Se però la persona che ci fornisce un insegnamento sottolinea solo i nostri errori e mai i nostri successi, ciò che proviamo è mortificazione, tristezza, delusione, frustrazione, rabbia. Questo può impedire lo sviluppo delle nostre abilità.

Un bambino, nel pieno del processo di apprendimento, ha bisogno di essere sostenuto e valorizzato, per trovare la motivazione e il desiderio di superare le difficoltà e acquisire nuove risorse e capacità. Se però viene costantemente svalutato, svilupperà un’immagine di sé come qualcuno che sbaglia sempre, e strutturerà l’idea secondo cui ci sono degli standard alti, che non riuscirà mai a raggiungere, e che i limiti non possono essere accettati. L’inevitabile conseguenza sarà che questo bambino davanti a un obiettivo tenderà a rinunciare in partenza, per evitare le conseguenze negative.

Conoscere i propri errori è utile per crescere e sviluppare nuove risorse e competenze ma quello che ci serve non è qualcuno che ci giudichi quando sbagliamo ma qualcuno che ci accetti per come siamo, con i nostri limiti, e che ci aiuti a comprendere cosa abbiamo sbagliato e come possiamo fare per migliorare, sottolineando poi i nostri successi.

  • La ricerca di sé negli altri

Quando nasciamo siamo completamente in mano ad altre persone, da cui dipendiamo per le cure. Da loro assorbiamo tutto ciò che ci serve per imparare a stare al mondo e attraverso la relazione con loro si crea un gioco di rimandi e rispecchiamenti che sarà alla base della nostra idea di noi stessi e degli altri, e dunque della nostra identità. Questo rispecchiamento continua nel corso di tutta la vita, ma in modo meno incisivo, perché è diverso il bisogno che ne sta alla base: se da piccoli i rimandi degli altri fondano la costruzione della nostra identità, da adulti possono farci piacere o meno, ma non dovrebbero incidere in modo netto sulla nostra autostima.

Può capitare tuttavia, se i nostri stessi genitori hanno sviluppato un’identità fragile e un’autostima insicura, o se accade qualcosa che assorbe tutte le loro energie e attenzioni, o se ci abituano a un’adorazione illimitata e ad un’aspettativa di attenzioni che la vita deluderà, che da bambini fatichiamo a riempire il sacco delle nostre sicurezze e che non riusciamo a crearci una chiara immagine di noi e delle nostre risorse. Questo ci porta da adulti a continuare questa ricerca di noi stessi negli occhi degli altri, così che i rimandi degli altri continuano a costituire la base del nostro senso di sé. Gli altri diventano fondamentali per noi, in quanto il loro sguardo su di noi determina ciò che noi siamo per noi stessi. Se il rimando è positivo, ci sentiamo amati e stimati; se è negativo, e dunque se veniamo criticati o contraddetti, proviamo una forte rabbia, legata al dolore di sentire di non valere nulla o di vedere un’immagine riflessa di noi che non sentiamo nostra. Per evitare questo forte dolore, cerchiamo dunque di fare sempre le cose alla perfezione, per avere l’approvazione degli altri, ma quando siamo soli ci sentiamo male, perché non sappiamo esattamente chi siamo e abbiamo paura di noi stessi, come delle cose che non conosciamo.

Questo vissuto può portare a ricercare anche nel partner qualcuno che sia disposto a rimandarci un’immagine di noi, che ci apprezzi e stimi, e allo stesso tempo a provare rabbia quando questa persona capisce che non può dedicare tutto il suo tempo a rimandarci l’immagine di cui abbiamo bisogno.

Diventa dunque fondamentale riuscire a vedere cosa c’è sotto questa rabbia e confrontarsi con il proprio dolore, la propria angoscia, la paura di non farcela da soli, e riconoscere quelle che sono le nostre potenzialità, prendercene cura, e trovare attraverso di esse un’immagine di chi siamo e di cosa sappiamo fare.

Bibliografia
Marcoli, A. (2017). Il bambino arrabbiato. Favole per capire le rabbie infantili. Mondadori