L’ansia o l’angoscia vengono spesso descritte attraverso la percezione di trovarsi in situazioni in cui ci si sente in trappola, bloccati senza possibilità di movimento, o completamente sperduti, senza punti di riferimento e senza direzione.
È una situazione di allarme in cui si vorrebbe poter fare qualcosa ma si sente di non averne la possibilità, le risorse, gli strumenti. È come essere soverchiati da qualcosa di più grande di noi, qualcosa contro cui non possiamo niente, nonostante il nostro sforzo di contrapporci ad esso. C’è una ricerca disperata di un modo per uscirne, per vedere la luce, ma questo sforzo non trova possibilità di realizzarsi, lasciando la persona in uno stato di agitazione, senza apparente ragione e senza
via di scampo.
Spesso questo vissuto è connesso alla sensazione di essere in pericolo: in gioco c’è la nostra vita, la nostra possibilità di sopravvivenza.
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DEPRESSIONE IN METAFORA
La depressione spesso viene descritta dalle persone come qualcosa che ci ferma, che blocca il movimento. Qualcosa che ci impedisce di trovare la forza di rimetterci in piedi e di continuare a camminare, che ci affossa e ci appesantisce. Qualcosa che toglie ogni speranza, un peso troppo grande per poter essere spostato.
La depressione non è tanto qualcosa di esterno a noi, non è qualcosa che ci si infila dentro e non ci lascia liberi. È piuttosto un nostro modo di reagire a una situazione che viviamo come pesante, inaffrontabile, non modificabile, qualcosa di fronte a cui l’unica scelta sembra abbandonare le armi, smettere di camminare, lasciarsi affondare. È l’impossibilità di vedere un’alternativa, una via di uscita, un senso.
È come chiudere la porta a tutte le sensazioni ed emozioni, perchè sarebbero troppo impegnative da gestire – ma insieme alle emozioni negative, spesso si chiude la porta anche alla possibilità di provare emozioni positive. È una rinuncia a tutto, per proteggersi dalla possibilità che ciò che arriva ci possa fare troppo male.
LO PSICOLOGO DÀ CONSIGLI?
Scienziato non è colui che sa dare le vere risposte, ma colui che sa porre le giuste domande. (L. Strauss)
Io penso che il senso del lavoro di uno psicologo – che rende la stanza di terapia uno spazio diverso da tanti altri – non sia dare consigli ma aprire nuove domande. Ricevere consigli è qualcosa che fa già parte della nostra esperienza quotidiana e tante volte ne siamo anche infastiditi. Ma perché? Perché un consiglio parte dall’esperienza personale di chi lo dà, parte dalle sue premesse, da ciò che per quella persona ha più senso, parte da ciò che per quella persona è più utile – ciò di cui non tiene conto un consiglio, spesso, è della persona che lo riceve. Un consiglio non si chiede cosa sia utile per quella persona, cosa abbia senso per quella persona. E forse ancora prima, non si chiede se quella persona lo voglia davvero quel consiglio. E se non lo volesse, cos’altro potrebbe volere? Di cosa potrebbe avere più bisogno?
Per rispondere a queste domande una cosa utile è uscire dalla propria prospettiva – per provare a comprendere quella dell’altra persona. Non partire da ciò che noi pensiamo sia successo a quella persona,
da ciò che noi pensiamo che quella persona dovrebbe fare per uscire da una determinata situazione sulla base di ciò che funziona per noi, da ciò che noi pensiamo che lei voglia.
Partire piuttosto da domande che la riguardano. Chi è quella persona? Come vede lei la sua situazione? Perché lei pensa di essere in quella situazione? E cosa per lei potrebbe essere più utile? E cosa possiamo fare noi considerato tutto questo?
Forse è proprio il fare domande che, anche per quella persona, può aprire nuove prospettive. Nuove domande generano nuove riflessioni e – potenzialmente – nuove risposte. Una buona domanda può farci chiedere qualcosa che non ci eravamo mai chiesti prima e darci nuovi sguardi.
Un consiglio chiude, impone, prescrive, appiccica prepotentemente qualcosa sulla persona che lo riceve –
senza tenere conto di lei. Una domanda lascia a quella persona la possibilità di guardarsi, di sostare, di riflettere – e di scegliere quello che, momento per momento, ha più senso per sé.
EQUILIBRIO E RELAZIONI
In terapia molto spesso le persone esprimono un concetto attraverso un’immagine, perché permette loro di renderlo più vivo, più dinamico, più vicino alla loro esperienza.
Di recente una persona ha descritto le relazioni umane come “tante cordicelle, io tiro un po’ qua, tu tiri un po’ là”.
A me fa pensare a come in ogni relazione entrino due o più persone, ciascuna con il proprio modo di sentire, vedere, pensare e – di conseguenza – di relazionarsi. E in questa relazione è come se ognuno avesse in mano tante corde – alcune arrivano all’altro, alcune gli sfuggono di mano, altre si incastrano sul polso, altre si sfilacciano o si rompono, in un continuo tentativo di comunicare, di capirsi, di incontrarsi.
A volte riusciamo a vedere solo il nostro estremo della corda e facciamo fatica o non siamo disposti a capire cosa succede all’altro capo se lo tiriamo verso di noi. Altre volte guardiamo solo all’estremo che ha in mano l’altra persona e ci dimentichiamo del risvolto che ha su di noi se quella persona lo tira verso di sé.
La maggior parte delle volte è un gioco di equilibrio, tra il tirare e il lasciar andare, tra il tendere e il mollare, tra il fare nodi e fare tagli – un equilibrio che ci permetta di esserci, senza dimenticarci dell’altro, e che permetta all’altro di esistere, senza dimenticarci di noi.
PIANGERE
Piangere non è mai solo una questione di lacrime. Piangere è un’espressione di sé, di qualcosa che proviamo dentro – di qualcosa che ci divora, che ci logora, che ci spegne, che ci svuota, che ci infuoca, che ci commuove.
Piangere non è la stessa cosa per tutti. La possibilità di piangere è qualcosa che si riempie dei nostri significati: quanto sento di potermi aprire all’altro? Quanto posso fidarmi? L’altro è qualcuno che mi accetterà o qualcuno che mi rifiuterà? Verrò ascoltato o rimarrò solo? Se piango sono una persona forte o sono debole? L’altro mi accoglierà o mi metterà i piedi in testa?
Piangere non è solo un atto naturale e spontaneo – siamo noi che scegliamo se, quando e quanto aprire i rubinetti. Perché aprire i rubinetti significa far uscire qualcosa di noi, qualcosa di intimo e delicato – e questo è qualcosa che spesso desideriamo ardentemente e che allo stesso tempo ci spaventa profondamente.
QUEL VUOTO INTERIORE
C’è qualcosa di incredibilmente pungente e scomodo nel non sentirsi a proprio agio con se stessi.
A volte ci si sente sbagliati, a volte lontani e distanti, a volte incompleti, a volte inutili, a volte non di valore, a volte sperduti, a volte annoiati, a volte confusi, a volte incomprensibili – persino ai propri occhi.
È come se un buco si aprisse nel petto, nella pancia. Un buco che si svuota di quella sensazione confortante di esserci, di esistere, di avere significato – e che, pur provando a far entrare di tutto, non si riempie di niente.
Di fronte alla sensazione di vuoto di solito scappiamo, cercando di riempirci con tutto ciò che riusciamo ad immaginare – il risultato di solito è solo di coprire, nascondere.
Ma cosa c’è dentro quello spazio vuoto? Perché ci fa così paura guardarci dentro? Quali bisogni ed emozioni chiedono di essere ascoltate? Cosa vorrebbe dire per noi ascoltarle? Quali parti di noi dovremmo mettere in gioco e a quali parti sentiremmo di dover rinunciare?
Spesso coprire il buco, cucendoci di volta in volta quello che ci sembra meglio combaciare con i suoi confini, richiede meno fatica rispetto all’idea di poter fare qualcosa di nuovo, perché se non altro è qualcosa che ci è familiare.
A volte però la scelta diventa nascondersi – o esserci davvero.
IL DOSAGGIO DELLE PAROLE
“Abbiamo parole per fingere,
parole per ferire,
parole per fare il solletico.
Andiamo a cercare insieme,
le parole per amare.
Abbiamo parole per piangere,
parole per tacere,
parole per fare rumore.
Andiamo a cercare insieme
le parole per parlare.” (G. Rodari, S. Endrigo)
Una persona con cui stavo facendo un percorso – una volta – mi ha detto: “È una riflessione sul dosaggio delle parole. Ci sono persone che le lanciano in aria e dove cadono cadono”.
Ho trovato fondamentale questo pensiero sul peso delle parole, su come una parola non sia solo un segno o un suono ma ben di più – una parola è un significato, che oltretutto non ha lo stesso senso, valore e peso per ognuno di noi.
Credo sia importante fermarsi a pensare a quanto ciò che diciamo o che ci viene detto possa lasciare un segno – aprire una ferita o imprimere una carezza, chiudere la comunicazione o creare un’apertura, fermare una speranza o muovere un’intenzione.
La parola può essere uno strumento, ma anche un’arma. Dosare le parole che usiamo significa prendere in considerazione ciò che l’altro potrà provare quando le sentirà – e prendersene cura.
COME CI PROTEGGIAMO
Ci sono delle parti di noi che reputiamo vitali. Non parliamo solo di parti fisiche – come il cuore, o i polmoni – ma anche di aspetti relativi a come vediamo noi stessi.
Sono aspetti che ci caratterizzano, che potremmo dire che definiscono chi siamo. Quando ci muoviamo nel mondo, giorno dopo giorno, lo facciamo basandoci su quell’idea di noi, su come noi ci conosciamo.
Essendo queste parti così importanti, diventiamo anche bravi a tenercele strette – a difendere quegli aspetti per cui Io sono Io. Abbiamo tante strategie per farlo, ne abbiamo inventate di ogni genere, più o meno consapevoli.
Una di queste è spingere verso il basso, schiacciare sotto il tappeto, chiudere nel cassetto – spazzare via, lontano dai nostri pensieri – tutte quelle emozioni, quei pensieri, quegli avvenimenti che ci dicono qualcosa di diverso su di noi, qualcosa che non è coerente con l’idea che abbiamo.
Perché? Perché a volte scoprire qualcosa di nuovo fa paura, perché ancora non ne conosciamo le implicazioni.
Se mi sono sempre vissuta come una persona forte – che non chiede aiuto a nessuno, che non crolla mai dalla tristezza o dalla paura, che riesce a tenere tutto a bada – quando, per una qualche ragione, la vita mi mette di fronte a qualcosa che mi fa sentire debole e mi fa sentire di non potercela fare da sola, ecco che arrivano i pensieri: “Chi sono io allora? Come posso fare qualcosa che non ho mai fatto e che non so fare, qualcosa come chiedere aiuto? Come mi vedranno gli altri, cosa penseranno di me? Posso accettare di avere delle debolezze? Come posso gestire le emozioni se prima mi sembravano controllabili e ora non più?”.
Non sempre siamo disposti a rispondere a queste domande, perché ci spaventano le possibili risposte o perché ci spaventa il fatto che non abbiamo idea di quali siano – e allora scegliamo di prendere tutte queste domande e spazzarle via, cercando di andare avanti come abbiamo sempre fatto.
Questo però ha un costo, perché ne soffriamo.
E allora, a volte, vale la pena di prendere in mano quelle domande – nonostante la fatica – e provare a esplorare le infinite possibilità che abitiamo.
ASCOLTO E PSICOTERAPIA
Spesso, quando proviamo a esprimere un sentimento come “sono triste”, “sono in ansia”, “sono arrabbiato”, ci sentiamo rispondere frasi come “vedrai che passa”, “ma dai, di cosa ti preoccupi”, “non saranno questi i problemi, c’è chi sta peggio”, “ah beh, perché non sai io…”, “te la prendi per niente”.
Di fronte a queste risposte ci sentiamo sempre insoddisfatti e frustrati. A volte non sappiamo perché e ci chiediamo cosa vorremmo dagli altri, se nessuna risposta sembra essere quella giusta. Allora ci diciamo che forse stiamo sbagliando a chiedere aiuto – o ci diciamo che forse siamo sbagliati noi – e prendiamo la decisione di tenere tutto dentro, oppure continuiamo a chiedere aiuto urlando sempre più forte.
Ma qual è la risposta di cui abbiamo bisogno davvero? L’ascolto. Poter sentire che c’è qualcuno – lì per noi – che ci dà spazio e che ascolta quello che proviamo. Qualcuno che ci dica che ciò che sentiamo ha un senso – che è comprensibile che possa essere difficile, brutto, doloroso, terribile o qualsiasi cosa noi sentiamo che sia.
Qualcuno che non cerchi di aggiustare ciò che si è rotto ancora prima di avere capito cosa si è rotto, perché e come – qualcuno che non sia lì per sostituire i pezzi rotti, fragili o graffiati con qualcosa che per lui è più adeguato, presentabile e accettabile, senza nemmeno sapere cosa è buono e preferibile per noi.
Uno dei luoghi possibili in cui trovare ascolto è la psicoterapia – una relazione all’interno del quale è possibile darsi spazio e trovare spazio, senza sentirsi sbagliati e senza dover urlare, per cercare nuovi modi di ascoltarsi, di ascoltare e di chiedere di essere ascoltati.
QUESTIONE DI LENTI
“Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose.” — Epitteto
Quando siamo felici non è l’oggetto della nostra felicità a renderci felice, ma ciò che per noi esso rappresenta. Quando ci arrabbiamo con qualcuno, non proviamo rabbia per ciò che quella persona ha fatto ma per quello che per noi significa ciò che essa ha fatto.
Ciò che proviamo e facciamo è guidato dal significato che attribuiamo a ciò che ci accade e che ci circonda – è influenzato dalle lenti che usiamo per guardare il mondo.
Ad esempio, se scegliamo di indossare le lenti del giudizio, tenderemo a leggere tutto ciò che ci accade – un commento ricevuto al lavoro, una frase detta da un amico, un consiglio dato dal partner – come una critica, un giudizio, una svalutazione di sé come persona.
Provando a cambiare le lenti che stiamo usando, potremmo rivalutare quel commento, quella frase, quel consiglio, come aiuto, affetto, amore, incoraggiamento, interesse – o anche invidia, paura, dolore, stanchezza.
Perché bisogna ricordarsi che quel commento, quella frase, quel consiglio arrivano da una persona – una persona che come noi usa delle particolari lenti per leggere ciò che gli altri fanno, sulla base dell’esperienza che ha fatto, di cosa le è stato insegnato, di cosa per lei è stato più utile fino a quel momento.
La cosa più difficile spesso è accettare che perché qualcosa cambi non dobbiamo cambiare le cose che ci circondano o le altre persone – ma dobbiamo cambiare noi stessi. E così imparare a usare tanti tipi diversi di lenti, per imparare a vedere il mondo in tanti modi diversi.