DISTURBI DELLA SESSUALITÀ

“Il mio corpo diviene campo di relazione ed espressione: in ogni momento gli occhi, le mani, il volto, le dita, realizzano le mie intenzioni già prima che io le pensi (Callieri)”.

Il corpo è la nostra interfaccia con il mondo e con le altre persone. La sessualità è un ambito in cui il corpo è fortemente coinvolto. Il modo in cui ci rapportiamo ad essa racconta qualcosa di noi, del nostro modo di relazionarci con l’altro e del nostro modo di vedere noi stessi.

I disturbi che coinvolgono la sessualità trovano espressione in sintomi specifici, che possono essere visti come “domande urgenti, espresse attraverso i comportamenti, che hanno in qualche modo perso i fili che conducono a delle risposte o a delle migliori domande (Kelly)”. Il sintomo, per quanto doloroso, è l’unico modo che la persona trova per continuare a riconoscersi, per mantenere il proprio equilibrio o per mantenere un legame per lei indispensabile. Si potrebbe dire che il sintomo sia un dolore più gestibile rispetto a quello che la persona si prospetta come alternativa – a quello che anticipa, più o meno consapevolmente, che potrebbe accadere se non si comportasse così, se non avesse quel modo di stare in relazione.

Spesso il sintomo grida il dolore di passare inosservati e il bisogno di essere visti – forse anche da se stessi. Può essere legato alla sensazione di non poter esprimere i propri bisogni e desideri, perché il piacere non è visto come legittimo o perché non ci si sente in diritto di chiedere qualcosa per sé, o alla paura di un’estrema vicinanza, o alla paura di un abbandono.

Ci si potrebbe dunque chiedere cosa accadrebbe se la persona non avesse quel sintomo, come cambierebbe la sua idea di sé e della relazione. Spesso il sintomo inoltre è co-costruito nella coppia e si rivela sensato per entrambi i partner, perché evita ogni possibile cambiamento, percepito come minaccioso. È dunque importante anche chiedersi in che modo i partner collaborino al mantenimento del sintomo, ognuno a proprio modo – e se ci siano delle alternative percorribili.

METTERE UN MURO TRA SÈ E IL MONDO

Qual è la prima reazione istintiva quando vediamo un’onda altissima che ci sta per sovrastare e ricoprire?

Scappare, proteggersi.

A volte la percezione che abbiamo della vita è questa, che sia un’onda enorme – o un insieme di onde – e che abbia il potere di sommergerci completamente. Farsi sommergere può essere spaventoso, perché non sappiamo cosa succede dopo – se ne usciremo, e come. Allora in alcuni casi la scelta migliore ci sembra quella di evitare le onde, di non incontrarle neanche – in modo da non dar loro alcuna possibilità di avere il controllo su di noi, neanche per un momento.

Proteggersi dalle onde però – se da una parte può preservarci dalla possibilità di soffrire fortemente – dall’altra ci impedisce anche di gioire fortemente. È come mettere un muro, tra sé e il mondo, e iniziare a sentire tutto con meno intensità. Scegliere di non farsi toccare dalle onde forse ci permette di restare sempre in piedi, ma non sapremo mai che effetto fa mettere i piedi nell’acqua e imparare a trovare un nostro equilibrio – dialogando con le onde.

PERCHÈ È COSÌ DIFFICILE STARE MALE

Perché è così difficile stare male?

Nello stare male entrano infiniti significati, perché stare male implica il riconoscere la propria sofferenza, trovarle un senso, ammetterla a se stessi ed eventualmente comunicarla agli altri.

Stare male è qualcosa che spesso le persone fanno fatica ad accettare, perché è vissuto come qualcosa che ci toglie energia, ci ferma, ci allontana dagli altri, ci spaventa, ci porta a farci domande a cui forse non vogliamo dare risposta.

Allora troviamo ogni strategia possibile per evitare di star male o per non pensarci – dormiamo, mangiamo, beviamo, usciamo e così via.

Da una parte cerchiamo di nascondere la nostra sofferenza agli altri, perché pensiamo che se la mostrassimo diventeremmo pesanti e gli altri si allontanerebbero, oppure ci renderebbe vulnerabili; dall’altra se non la mostriamo sentiamo che gli altri comunque ci giudicheranno perché non soffriamo come dovremmo.

Il dolore è qualcosa che le persone fanno fatica a maneggiare, sia quando lo vivono sia quando vedono qualcuno che lo vive, perché è qualcosa da cui a volte temiamo di essere risucchiati o sopraffatti.

È come se – quando stiamo male – cadessimo in un burrone, buio e profondo. Appena ci troviamo lì dentro facciamo di tutto per uscirne. Saltiamo, ci arrampichiamo, scaviamo. Cerchiamo in ogni modo di puntare alla luce che arriva dall’alto ma non pensiamo mai che potremmo provare a guardare in quel burrone e vedere cosa ci troviamo – perché forse il modo di costruire un’uscita è possibile solo cercando nel luogo in cui siamo.

La sofferenza ha una sua ragione, ha un suo senso – ci dice che qualcosa per noi non va più bene, ci invita a guardare in un’altra direzione, ci spinge ad ascoltarci e a darci tempo. E il modo di vivere la sofferenza non è uno e unico – ma uno per ognuno di noi.

QUANDO VOGLIAMO MOLLARE IL COLPO

Ogni tanto arriva quella sensazione – la sensazione di voler mollare il colpo.

Quella sensazione che ricorda un po’ lo sdraiarsi su un materassino, di quelli che si usano al mare, però – per una volta – senza dover tenere d’occhio la riva. Solo lasciarsi trasportare, portare alla deriva. Sentire in tutto il corpo la possibilità – se non il potere – di lasciare andare, di non dover più tenere tutto sotto controllo, di mettere da parte i doveri, le aspettative, le richieste, gli impegni, i pensieri che ci sentiamo addosso e che ci tengono vigili, all’erta, in movimento continuo e instancabile.

Basta – solo stendersi sul materassino, a pancia in giù, il volto appoggiato stancamente al cuscino. Sospingersi lentamente nell’acqua e andare, andare, andare – senza doversi chiedere dove si arriverà o cosa ci succederà. Senza averne paura. Senza elencarne tutte le implicazioni. Senza sentirsi in colpa.

Quando siamo bambini non vediamo l’ora di diventare grandi, per essere autonomi e fare le nostre scelte, per non avere più davanti gli adulti che ci dicono cosa è meglio per noi. Poi diventiamo grandi e certe volte desidereremmo tornare bambini e ritrovare quel qualcuno che – anche solo per un momento – scelga per noi, si carichi delle nostre paure e fatiche, ci accudisca – facendoci sentire al sicuro, liberi di mollare la presa.

Allora forse – ogni tanto – dovremmo imparare a lasciarci accudire. Perché lasciarsi andare non vuol dire necessariamente perdere la propria autonomia, forza ed indipendenza – può anche voler dire prendersi cura di sé.

QUANDO TUTTO DIVENTA PRESTAZIONE

Vi capita mai di avere la percezione che la vita sia un continuo rincorrere qualcosa? Proiettarsi nel futuro, raggiungere obiettivi, diventare qualcuno, avere qualcosa. È come se qualcuno ci dicesse: “se non fai qualcosa di valore, non sei nessuno”, “se non sai cosa vuoi, non sei di valore”, “se non hai successo, sei un fallito”.

Di fronte a questa richiesta implicita alcune persone – che non hanno la minima idea di cosa vogliano, che non si sentono abbastanza competenti o nel momento giusto per prendere una decisione definitiva – si possono trovare a rincorrere un obiettivo che qualcuno gli ha incollato addosso o ad andare avanti per inerzia, sperando che qualcosa – ad un certo punto – gli farà capire chi essere e dove andare. Possono sentirsi inadatte, incapaci, sbagliate, incastrate – e iniziare a pensare che quello che gli altri (ritenuti capaci e adatti) fanno o inseguono debba andare bene anche per loro.

Altre persone possono scegliere un obiettivo che sentono che gli corrisponde e andare dritte, camminando decise – a volte correndo – venendo però colte ad un certo punto da mille paure: “Lo voglio davvero? Sarò capace di reggere? Sarò abbastanza bravo? Era quello l’obiettivo o è solo l’inizio di qualcos’altro? Quello che ho fatto finora sarà sufficiente? Perché gli altri sembrano sempre più avanti di me? Sarò felice di raggiungere l’obiettivo? E se non ne sarò felice, avrò buttato il mio tempo? Cosa farò poi? Chi sarò?“.

A volte ci dimentichiamo che il principale punto di riferimento per le nostre scelte siamo noi e ciò che sentiamo che ci fa star bene – che nella vita si può sbagliare – che il “successo” non ha lo stesso significato per tutti – che bisogna avere pazienza – che i desideri possono cambiare – e quando ce ne dimentichiamo ci ritroviamo terrorizzati e confusi da tutte le nostre paure.

La paura, l’insoddisfazione e la frustrazione possono essere un blocco, ma anche un motore. Se non ci facciamo spingere nell’angolo, pietrificati, ci possono indurre a dare di più, a farci domande, a metterci alla prova, a sperimentarci – seguendo i nostri tempi e i nostri bisogni, facendo ogni passo solo quando sentiamo che il nostro corpo può sostenerlo.

GLI ALTRI NON MI ASCOLTANO E NON MI CAPISCONO

Gli altri non mi ascoltano. Gli altri non mi capiscono. Gli altri mi fraintendono.

Capita a volte di avere la sensazione che ciò che sentiamo di essere nel profondo – e che per noi è importante – non venga visto all’esterno, non venga compreso, non venga riconosciuto. Anzi, a volte ci sentiamo attribuire qualcosa che siamo convinti non ci appartenga per niente – e ne soffriamo.

Questa sensazione di incomunicabilità ed incomprensione – soprattutto se ripetuta nel tempo ed estesa a varie situazioni – può farci sperimentare una grossa frustrazione, che può sfociare in rabbia.

E come gestiamo solitamente la rabbia?

In alcuni casi la rivolgiamo contro noi stessi – possiamo chiuderci a riccio, cercando di soffocarla, o cercare di farla uscire attraverso un dolore fisico ritenuto degno di rappresentarla – perché scegliamo di partire dall’idea che se non ci esponiamo, non correremo il rischio di essere fraintesi, incompresi o giudicati.

In altri casi rivolgiamo la rabbia all’esterno – sugli oggetti o sugli altri. Lo sfogo sull’oggetto permette di buttare fuori la rabbia senza doversi confrontare con quell’Altro che riteniamo origine della nostra sofferenza, mentre lo sfogo sull’Altro ci permette di dare a lui la colpa di non averci ascoltato, di non averci capito, di non essere interessato a noi.

Ma ci capita mai di chiederciPerché così spesso mi sento non ascoltato o frainteso? Cosa significa per me essere ascoltato e compreso? L’altro ha la mia stessa idea a riguardo? Perché ho bisogno che l’altro mi ascolti e mi comprenda? Quanto è l’altro a non ascoltarci o comprenderci e quanto siamo noi a non permetterglielo? Perché provo rabbia? È un modo per proteggere o difendere qualcosa che sento profondamente mio? Cosa accadrebbe se l’altro mi ascoltasse e comprendesse davvero?

È vero, a volte chi abbiamo davanti non ci ascolta. A volte non ci comprende. A volte ci fraintende. È anche vero però che siamo noi che scegliamo quando e quanto dare valore a ciò che l’altro fa in relazione a noi.

Forse allora ciò che potremmo dirci è – non mi sento ascoltato, non mi sento capito, mi sento frainteso – e questo mi ferisce. Poi potremmo provare a chiederci il perché.

QUELLO CHE IL COVID STA TOGLIENDO AI GIOVANI

Il perdurare dell’emergenza sanitaria in cui ci troviamo tocca tutti – in un modo o nell’altro. Ma i dati sull’aumento dei tentativi di suicidio e di autolesionismo nei giovani mostrano come una delle fasce più colpite sia proprio quella che sta attraversando la fase della vita che comunemente è dedicata alla sperimentazione, alla scoperta di sé, al confronto, alle prime delusioni, paure, conquiste, curiosità, rivalità, complicità – le quali avvengono inevitabilmente all’interno della relazione con gli altri.

Ma se questa relazione è proprio ciò di cui veniamo privati? Come possono fare i più giovani a scoprire la loro fragilità e ad inventarsi i modi per farvi fronte? Dove possono scoprire ciò che di loro gli piace e ciò che invece vorrebbero cambiare? Come possono capire chi vogliono diventare? Con chi possono parlare, chi può dare loro quel senso di appartenenza così importante che di solito viene dato dal gruppo di amici? Dove possono confrontarsi con ciò che provano e riuscire a dargli un senso?

I giovani si trovano pieni di emozioni – ansia, paura, angoscia, solitudine, frustrazione – che non hanno ancora avuto il tempo di sperimentare all’esterno, con gli altri, e a cui non sanno dare senso o a cui non sanno come fare fronte. E accanto hanno solo i genitori, che non sempre – o raramente – a quell’età sono il punto di riferimento principale.

Tutte quelle emozioni, chiuse dentro, senza via di uscita, creano un dolore e una sofferenza che hanno la consistenza di un dolore fisico – e questo dolore non può rimanere lì costretto troppo a lungo – prima o poi esplode, e deve uscire. E senza aver avuto la possibilità di scoprire che la sofferenza è comune a tutti, che ci sono tanti modi di affrontarla e – soprattutto – senza avere la possibilità di parlare e stringersi tra le braccia di un amico, come pretendiamo che i ragazzi gestiscano da soli l’angoscia di una vita che gli sta togliendo la possibilità di essere vitali, sociali, curiosi e proiettati nel futuro?

PERCHÈ HO PAURA DEL GIUDIZIO DEGLI ALTRI

Quante volte ci guardiamo attraverso gli occhi degli altri? Quante volte il peso del loro sguardo definisce ciò che pensiamo di essere o di non essere?

Ma questi “altri” sono altri reali o immaginari? Ciò che vediamo nei loro occhi è veramente ciò che loro vedono o è una nostra attribuzione?

Forse la paura è che gli altri vedano di noi quelle parti che ci spaventano di più, che ci rendono più fragili, più deboli, più delicati – quelle parti che noi stessi facciamo fatica a guardare – perché se qualcun altro le vedesse diventerebbero reali, diventerebbero qualcosa da cui non possiamo più scappare. Tutte le difese che abbiamo costruito fino a quel momento crollerebbero e a quel punto come potremmo mostrarci all’altro se il modo che abbiamo usato fino a quel momento non funziona più? L’altro saprebbe accettare che non siamo perfetti? Che abbiamo paura? Che siamo a volte arrabbiati, lunatici, dipendenti? O ci lascerà soli, ci abbandonerà, ci giudicherà? Saremo noi in grado di sopravvivere a un rifiuto? Alla solitudine?

Allora forse vale la pena di chiedersi perché dare valore al giudizio degli altri a volte è così importante, cosa ci permette di tenere celato, cosa ci permette di non tirare fuori e di non affrontare, da cosa ci protegge. E farsi questa domanda ci permetterà di vedere qualcosa di noi che al momento non ci piace, qualcosa che forse addirittura disprezziamo e di cui vorremmo liberarci. Ma nel tempo potremmo arrivare a comprendere perché si trova lì, a dargli un suo senso, a riconoscerlo come nostro e ad accettarlo. Se noi per primi lo accettiamo, gli occhi degli altri diventeranno meno giudicanti, meno spaventosi – perché il peso che daremo al loro sguardo sarà diverso. Saremo liberi di essere ciò che siamo, anche con le nostre parti più fragili, e di scegliere a chi mostrarle. E forse ci accorgeremo che anche le altre persone accetteranno quelle parti – le ameranno a volte – perché in esse riconosceranno ciò che c’è anche dentro di loro.

Ognuno di noi ha una parte delicata – il contatto tra le nostre parti fragili ci permetterebbe forse di cominciare a parlarci per davvero e di smettere di avere tanta paura.

PORTARE UNA “MASCHERA”

Cosa significa portare una maschera?

La maschera è qualcosa che prescinde da noi – come se fosse un oggetto esterno – che indossiamo per nascondere ciò che siamo davvero o è solo uno dei tanti modi di essere che ci caratterizzano? Una maschera ci nasconde agli occhi degli altri o in qualche modo mostra qualcosa di noi?

Credo che tutto stia nei presupposti da cui si sceglie di partire.

Se crediamo di essere delle persone con delle caratteristiche stabili e durevoli nel tempo, che tutto sommato non cambiano eccessivamente man mano che crescono o nelle varie situazioni che incontrano, probabilmente sentiremo di indossare una maschera quando – in una situazione particolare – la nostra percezione sarà quella di non comportarci in modo coerente con l’idea che abbiamo di noi stessi. Se invece prendiamo in considerazione la possibilità di avere tante sfaccettature diverse, in diverse situazioni, relazioni e tempi, e accettiamo che non possiamo definirci in modo stabile e quindi ci permettiamo di essere “incoerenti”, allora forse indossare una maschera non significherà più nascondere ciò che siamo davvero agli occhi degli altri ma ogni “maschera” sarà il nostro miglior modo per stare in una determinato contesto o momento di vita. Ogni maschera siamo noi – noi che scegliamo di indossare quella “maschera” in quel momento per determinate ragioni.

Perché portare una maschera spesso è connesso alla sofferenza?

La sofferenza è molto plausibile se seguiamo il primo presupposto, secondo cui portare una maschera significa nascondere il vero Sè o percepirsi come diversi da ciò pensiamo o vogliamo essere. Si soffre perché l’idea è che non possiamo essere accettati per ciò che siamo o perché a volte scopriamo che non siamo esattamente come immaginavamo. Ma se accettiamo che possiamo essere a volte in un modo e a volte in un altro, prendendo in considerazione i motivi che ci portano a quelle diverse esperienze di noi stessi, forse la sofferenza non sarà più così profonda.

Ad esempio, se solitamente mi vivo, mi penso e mi descrivo come una persona forte, capace di affermare i propri bisogni, ma un giorno al lavoro mi trovo a metterli da parte e ad essere compiacente verso il mio capo, potrei soffrire di questo. La sofferenza sarà connessa da una parte al fatto che sentirò di aver nascosto ciò che penso di essere davvero, dall’altra al fatto che essere compiacente non è coerente con l’idea che ho di me stesso, e forse non mi piace neanche molto come caratteristica. Vedere però l’essere compiacente non come una caratteristica stabile ma come un atteggiamento, un modo di essere legato a una situazione o relazione particolare, ci permette di dare senso a quelle che appaiono come incoerenze, e a vederci anche in modo più ricco e sfumato.

Riuscire a vedere e accettare tutto ciò che possiamo essere – dandogli senso all’interno della nostra esperienza – è una risorsa, perché ci permette di leggere meglio ciò che ci accade e di avere più strumenti per affrontarlo con serenità.

QUANDO LA NOSTRA “ISOLA FELICE” NON CI RENDE PIÙ FELICI

Spesso rimpiangiamo di esserci allontanati dalla nostra isola felice, anche quando di felicità c’è n’era ben poca. Perché fa paura affrontare il mare aperto da soli.”

Passiamo gran parte del tempo cercando di costruire qualcosa – qualcosa che ci faccia sentire di avere un ruolo, di far parte di qualcosa, di essere utili, di lasciare dietro di noi una traccia.

A volte però, strada facendo, ci accorgiamo che quello che abbiamo costruito fino a quel momento non ci corrisponde più, ci fa sentire stretti, ci blocca, ci spaventa, ci soffoca.

Cosa fare allora? Da una parte c’è quello che abbiamo costruito, con fatica, impegno e anche passione – qualcosa in cui abbiamo messo noi stessi – che nonostante non ci corrisponda più ci fa sentire in qualche modo sicuri, perché almeno lo conosciamo, ci siamo abituati. Dall’altra parte c’è tutto quello che potremmo fare e che potremmo essere ancora – su cui però non possiamo fare grandi previsioni – qualcosa che non dà alcuna garanzia, fa paura, è incerto.

Possiamo allora scegliere di rimanere al nostro posto, anche se ormai lo viviamo come una gabbia – una gabbia che costruiamo noi, giorno dopo giorno. Oppure possiamo scegliere di aprire la porta, uscire dalla gabbia, e ricominciare a costruire qualcos’altro – custodendo comunque la gabbia, che intanto sarà diventata un contenitore di ricordi e quindi di una parte di noi.

Scegliere di fare qualcosa di diverso, che sentiamo più vicino a ciò che siamo in quel preciso momento di vita, non significa annullare tutto ciò che siamo stati e perderci totalmente. Significa invece partire da ciò che abbiamo costruito fino a quel momento, capire perché lo abbiamo costruito, che cosa dice di noi, che cosa racconta di ciò che non ci fa più star bene e di ciò che invece vorremmo esplorare.

Non c’è una scelta giusta o sbagliata – è solo importante imparare ad ascoltarsi.