Il perdurare dell’emergenza sanitaria in cui ci troviamo tocca tutti – in un modo o nell’altro. Ma i dati sull’aumento dei tentativi di suicidio e di autolesionismo nei giovani mostrano come una delle fasce più colpite sia proprio quella che sta attraversando la fase della vita che comunemente è dedicata alla sperimentazione, alla scoperta di sé, al confronto, alle prime delusioni, paure, conquiste, curiosità, rivalità, complicità – le quali avvengono inevitabilmente all’interno della relazione con gli altri.
Ma se questa relazione è proprio ciò di cui veniamo privati? Come possono fare i più giovani a scoprire la loro fragilità e ad inventarsi i modi per farvi fronte? Dove possono scoprire ciò che di loro gli piace e ciò che invece vorrebbero cambiare? Come possono capire chi vogliono diventare? Con chi possono parlare, chi può dare loro quel senso di appartenenza così importante che di solito viene dato dal gruppo di amici? Dove possono confrontarsi con ciò che provano e riuscire a dargli un senso?
I giovani si trovano pieni di emozioni – ansia, paura, angoscia, solitudine, frustrazione – che non hanno ancora avuto il tempo di sperimentare all’esterno, con gli altri, e a cui non sanno dare senso o a cui non sanno come fare fronte. E accanto hanno solo i genitori, che non sempre – o raramente – a quell’età sono il punto di riferimento principale.
Tutte quelle emozioni, chiuse dentro, senza via di uscita, creano un dolore e una sofferenza che hanno la consistenza di un dolore fisico – e questo dolore non può rimanere lì costretto troppo a lungo – prima o poi esplode, e deve uscire. E senza aver avuto la possibilità di scoprire che la sofferenza è comune a tutti, che ci sono tanti modi di affrontarla e – soprattutto – senza avere la possibilità di parlare e stringersi tra le braccia di un amico, come pretendiamo che i ragazzi gestiscano da soli l’angoscia di una vita che gli sta togliendo la possibilità di essere vitali, sociali, curiosi e proiettati nel futuro?